Siamo nati nella notte in cui la lupa ha partorito 
Al mattino, al ruggito dei leoni ci hanno dato i nostri nomi 
Nei nidi delle aquile le nostre madri ci hanno allattato, 
I nostri padri ci hanno insegnato a domare i cavalli.

Le madri ci hanno partoriti per il popolo e per la patria 
e alla loro chiamata ci alzeremo coraggiosamente 
Siamo cresciuti liberi, come le aquile di montagna, 
Abbiamo superato con dignità difficoltà ed ostacoli

Le rocce di granito si scioglieranno come piombo, 
prima che noi perdiamo la nostra nobiltà nella vita e nella lotta. 
La Terra sarà infranta dal Sole ardente, 
prima che noi ci pieghiamo al suolo, perdendo il nostro onore,

Non ci sottometteremo mai davanti a nessuno, 
Morte o Libertà – possiamo scegliere solo una via. 
Le nostre sorelle curano le nostre ferite con i loro canti, 
gli occhi dell’amato ci ispirano all’impresa delle armi.

Se la fame ci abbatterà, rosicchieremo le radici. 
Se la sete ci divorerà, berremo la rugiada dell’erba. 
Siamo nati nella notte in cui la lupa ha partorito. 
Popolo, Patria e Dio, – serviamo solo loro
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Inno della Repubblica Cecena di Ichkeria

GEOGRAFIA

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STORIA

La patria dei ceceni è il Caucaso, una terra selvaggia incuneata tra il Mar Caspio e il Mar Nero e attraversata da parte a parte da due catene montuose: una più alta, situata a nord e chiamata Grande Caucaso ed una più bassa, più a sud, il Piccolo Caucaso. Queste due creste formano una barriera che è possibile superare soltanto attraverso ripidi passi montani, o aggirando le alture lungo la costa. Alle pendici delle montagne si aprono anguste valli, scavate nei millenni da ripidi torrenti. A Sud, oltre il Piccolo Caucaso si estende l’Altopiano Armeno, una distesa di brulle colline. A Nord, ai piedi del Grande Caucaso si apre la sterminata steppa russa. Le creste più alte, quasi sempre innevate, disegnano una suggestiva corona bianca sulla fitta foresta che ricopre gli altipiani.


Punto d’incontro tra Europa, Asia e Medio Oriente, il Caucaso è stato il crocevia delle più grandi civiltà della storia: grandi imperi in lotta per la supremazia se lo sono conteso senza tregua, ed ognuno di questi ha lasciato la sua impronta nella religione, nell’architettura, nella toponomastica. La natura avara di risorse e le invasioni dei conquistatori hanno forgiato popoli semplici e vivaci, abituati a combattere per la sopravvivenza e per questo molto attaccati alle loro origini ed alle loro specificità: basti pensare che in quest’area grande quanto la Francia convivono venti nazioni, diciannove lingue, diciassette stati e tre religioni. Incastonata in questo mosaico, la Cecenia misura diciassettemila chilometri quadrati. Il suo territorio è molto variegato: percorrendolo da nord a sud incontriamo una larga pianura dominata dalla steppa, che a poco a poco lascia spazio ad un reticolo di campi arati, prospicenti le sponde del principale fiume del paese, il Terek, che lo attraversa da ovest ad est, scendendo verso il Mar Caspio. Superatolo, si entra nella sua pianura alluvionale fino a raggiungere una catena di colline che ne marca il limite. Oltre queste modeste alture si apre un’altra ampia valle, attraversata da un altro importante fiume, il Sunzha. Anche questo percorre il paese da ovest ad est, seguendo un percorso molto articolato e ricco di anse che nei millenni ha scavato una vasta pianura, la cosiddetta Pianura Cecena. Qui si trovano gli insediamenti più popolosi, tra i quali la capitale, Grozny, o come la chiamavano i ceceni Solzha Ghala. Essa è posizionata quasi nel centro geografico del paese, ed è abitata da quasi un terzo dei residenti nella repubblica. A sud della pianura si aprono numerose gole, attraversate da vivaci torrenti montani. Risalendoli si raggiunge la regione più meridionale del paese, aspra e boscosa, dominata dalle montagne del Caucaso.

Fin dall’antichità i Ceceni hanno dovuto combattere per difendere le loro terre dagli invasori: Cimmeri, Sciti, Sarmati, Mongoli, Tartari tentarono inutilmente di conquistare il paese, ed ogni volta furono respinti. Nel Diciassettesimo secolo si affacciò sul Caucaso la nascente potenza imperiale della Russia. Anche i Ceceni, al pari dei loro vicini, dovettero affrontare la potenza dell’esercito zarista, che si abbattè sulle loro terre bruciando i loro villaggi e costringendoli a rifugiarsi sulle montagne. Tra le gole della Cecenia meridionale sorsero continui movimenti di rivolta, che impedirono all’Impero Russo di consolidare il suo controllo per molti decenni. La caduta dello Zar Nicola II a seguito della Rivoluzione d’Ottobre dette ai popoli caucasici l’opportunità di riguadagnare l’indipendenza. La Cecenia entrò così a far parte della Repubblica della Montagna. Questa confederazione di popoli tentò di opporsi alle armate russe, ora divise in “rosse” e “bianche” e di preservare la sua indipendenza, ma dovette infine soccombere alla vittoria delle soverchianti forze sovietiche.

Quando, nel 1941, la Germania nazista invase l’URSS, decine di migliaia di ceceni combatterono con onore. Tuttavia, nel 1944, Stalin ordinò che l’intero popolo ceceno, considerato “inaffidabile” per il progetto di architettura sociale sovietico, venisse deportato. Nella notte tra il 22 ed il 23 Febbraio ebbe inizio la cosiddetta Operazione Lentil, passata alla storia con il termine russo di Chechevitza e con quello ceceno di Ardakhar: nel giro di una giornata tre quarti dell’intero popolo ceceno vennero caricati su treni merci e spediti in Asia Centrale. Nei giorni seguenti lo stesso destino toccò all’ultimo quarto. Chiunque non fosse in grado di muoversi o opponesse resistenza venne giustiziato sul posto. Le guardie di origine cecena, dopo essere state costrette a scortare i loro connazionali fino alle stazioni vennero a loro volta disarmate e caricate sui treni. Qualsiasi resistenza fu inutile. I villaggi nei quali si verificarono vennero dati alle fiamme, ed i loro abitanti trucidati sul posto. Per coloro che arrivarono vivi ai treni iniziò un viaggio della morte di tre settimane. Il 20% dei deportati morì durante la traversata. I sopravvissuti vennero scaricati alla rinfusa e costretti a costruirsi da soli ripari e capanne ai margini di aziende agricole collettive delle quali sarebbero stati la più bassa forma di manodopera. Il governo sovietico impose loro la permanenza coatta. Ogni mese gli esiliati avrebbero dovuto presentarsi alle autorità e dichiarare la loro presenza, pena una condanna a vent’anni di lavori forzati.